Sarà uno strepitoso Sergio Castellitto a chiudere la stagione di prosa del Nuovo Teatro Verdi di Brindisi, mercoledì 19 aprile con sipario alle ore 20.30, con “Zorro. Un eremita sul marciapiede” dal romanzo breve di Margaret Mazzantini. Biglietti disponibili in botteghino e online alla pagina rebrand.ly/Zorro. Info T. 0831 562 554 e botteghino@nuovoteatroverdi.com.
In scena l’attore e regista darà vita a uno Zorro lontano dall’ottocentesco eroe mascherato uscito dalla fantasia di Johnston McCulley. Sarà, infatti, un clochard che racconta la storia della sua vita e delle scelte che lo hanno portato a vivere sulla strada. Il dialogo interiore di un uomo ai margini della società, capace di vedere la realtà osservando la vita delle persone “normali”. Capace di rappresentare attraverso un “allegro filosofare” il “sale della vita”, la complessità e l’imprevedibilità dell’esistenza.
“Zorro” è la narrazione di “un uomo di viaggio”, con una storia come tante, con un percorso comune a tutti noi. Una persona irregolare fatta di fragilità e compressa dalle convenzioni che la società ci impone. La sua è una vita precaria, che tuttavia riflette la provvisorietà interiore di ciascuno di noi. Il personaggio ripercorre i momenti che lo hanno portato a fare del marciapiede la propria dimensione esistenziale, perché vivere ai margini del “mondo normale” è stata una sua scelta, dopo un percorso solitario, a tratti sofferto. Il suo racconto si divide in un prima e un dopo e con un punto di non ritorno rappresentato da un incidente a causa del quale un uomo perderà la vita. Prima un’esistenza comune a molti di noi: un lavoro, una casa, una macchina, una moglie. Dopo la perdita totale: amici, amore, famiglia, ogni aspetto materiale della vita, insomma tutto ciò che sarebbe inconcepibile non avere in quella che è definita normalità, eccetto la dignità. Nonostante la durezza di vivere senza una casa, senza la sicurezza di un tetto o l’affetto di una famiglia, Zorro decide di non chiedere nulla e non accettare elemosine per preservare la sua dignità: in fin dei conti quella “non è una tessera”.
In compenso ritrova una libertà impensabile nella società civile, quella di poter dire tutto, senza filtri, e di confessare verità che spesso celiamo per conformarci ai cliché, decidendo di non tornare alla sua vita precedente. Proprio sulla strada inizia la sua seconda vita, ed è proprio lì che sceglie di ritrovare se stesso. Zorro se ne sta in disparte, su una panchina, invisibile e insignificante al nostro sguardo. Ci restituisce il suo punto di vista, permeato da questa libertà di guardare in faccia le persone. Senza remore e senza paura. E con in più quell’elemento rarefatto che a tutti manca: il tempo. Per camminare, per assaporare il silenzio, per osservare la nostra frenesia nel vederci correre da una parte all’altra. Non ha bisogno di misurare il tempo, di pianificare ogni minuto, perché tanto “la vita è un giorno”. Zorro è un antieroe, la coscienza del nostro tempo che il tempo non deforma, la lascia incorrotta e capace di restituire una fotografia obiettiva della società. Un occhio al di fuori della bolla contaminata, una voce ripulita del caos universale che attraversa le nostre esistenze. La vita è una giostra, ci dice Zorro. Bisogna saperci stare, accettare i cambiamenti, gli imprevisti, ma anche le gioie, i successi. Ma soprattutto, è necessario stare bene con le proprie scelte, percorrere la propria strada, con dignità e libertà. Anche la musica fa da contorno al viaggio. E come poteva essere diversamente. “Vecchio Frack” di Domenico Modugno apre il varco per il senso della mimesi, e poi “La sera dei miracoli” di Lucio Dalla” e ancora “Mio fratello è figlio unico” di Rino Gaetano, che racconta di quella umanità stracciata e vera che si ostina a pensare che in fondo nell’amaro benedettino non sta il segreto della felicità.
«Zorro – spiega Margaret Mazzantini – mi ha aiutato a stanare un timore che da qualche parte appartiene a tutti. Perché dentro ognuno di noi, inconfessata, incappucciata, c’è questa estrema possibilità: perdere improvvisamente i fili, le zavorre che ci tengono ancorati al mondo regolare. Chi di noi in una notte di strozzatura d’anima, bavero alzato sotto un portico, non ha sentito verso quel corpo, quel sacco di fagotti con un uomo dentro, una possibilità di se stesso?». Secondo la scrittrice i barboni sono randagi scappati dalle nostre case, odorano dei nostri armadi, puzzano di ciò che non hanno, ma anche di tutto ciò che ci manca. «Perché forse ci manca – continua Mazzantini – quell’andare silenzioso totalmente libero, quel deambulare perplesso, magari losco, eppure così naturale, così necessario, quel fottersene del tempo meteorologico e di quello irreversibile dell’orologio. Chi di noi non ha sentito il desiderio di accasciarsi per strada, come marionetta, gambe larghe sull’asfalto, testa reclinata sul guanciale di un muro? E lasciare al fiume il suo grande, impegnativo corso». Perché i barboni, come ricorda l’autrice, «sono come certi cani, ti guardano e vedi la tua faccia che ti sta guardando, non quella che hai addosso, magari quella che avevi da bambino, quella che hai certe volte che sei scemo e triste».
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